Patire nel processo: tortura e confessione nella procedura penale d’antico regime
DOI:
https://doi.org/10.6092/issn.2724-5179/14634Parole chiave:
Processo criminale, Confessione, Interrogatorio, TorturaAbstract
Il saggio intende illustrare sinteticamente una linea di tendenza di ampio spettro cronologico che vede l’emersione progressiva della “parola”. Un punto di svolta si registra alla fine del XII secolo con la repressione dell’eresia: la Chiesa predispone un nuovo tipo di processo fondato sul rapporto asimmetrico tra giudice e imputato nonché sulla deposizione trascritta e sottoscritta di quest’ultimo. Ben presto, la centralità della confessione eleverà la tortura quale ordinario meccanismo di pressione fisica e psicologica durante l’interrogatorio. Quello inquisitorio in breve tempo diventerà il processo adottato anche dalle autorità laiche per la repressione dei crimini: l’importanza dell’interrogatorio sotto tortura è documentato, tra l’altro, da diverse opere di giuristi e cancellieri, che intendevano fornire una guida e un ausilio nella verbalizzazione delle domande e delle risposte. Nel caso celebre del processo agli untori di peste del 1630, i verbali superstiti verranno riletti con sfumature e intenti diversi da Alessandro Verri e da Alessandro Manzoni tra fine Settecento e metà Ottocento: in entrambi gli autori, comunque, risaltano con forza la “parola” dolente dei torturati e la stortura impressa dalla violenza sul risultato finale delle sentenze e delle condanne.
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